“Te si propio un teròn“. Queste parole, rivoltemi qualche settimana fa, mi sono tornate alla mente all’indomani del Referendum come un brusco risveglio. Dopo tempo, per la prima volta in assoluto da parte di una persona a me cara, vedevo un mio difetto imputato alla mia presunta origine. Perché terrone, come straniero, è una parola che definisce escludendo, che identifica negando l’identità.
Un senso di disagio mi aveva preso in quel momento. So bene di non essere veneto, senza problemi, ma ho vissuto qui per la maggior parte della mia vita e finora non mi ero sentito mai straniero.
Adesso un po’ sì.
Il referendum del 22 ottobre ha stabilito che il 60% dei veneti vuole più autonomia; soprattutto Zaia (molto meno Maroni) ha vinto la sua partita e non era facile. Adesso ha già detto che chiederà alla Stato di avocare alla Regione Veneto le 23 materie concorrenti e i 9/10 delle tasse.
Proposte probabilmente irricevibili, soprattutto per un governo in scadenza di legislatura. L’importante però è iniziare uno scontro istituzionale, che per i prossimi anno legittimi le classi politiche locali autonomiste, che a loro volta risponderanno a qualsiasi diniego o concessione con richieste sempre crescenti.
E così, tra i festeggiamenti, c’è chi mi consiglia già a noi terroni preparare il passaporto. “Ho la residenza in Veneto – scrive un’amica – ho comprato la mia prima casa in Veneto, lavoro in Veneto. Sono Veneta?”.
Adesso vediamo chi riderà o darà più lezioni sulla Catalogna. Conosco la situazione spagnola, e purtroppo inizio a vedere le stesse dinamiche. Ci vivo da 22 anni e qui sono nati i miei figli, ma oggi mi sento un pochino meno veneto e più italiano.